Ecco qui una bella intervista di Paullina Simons su
"Il cavaliere d'inverno"
"Il cavaliere d'inverno"
Nel suo libro (“Il Cavaliere d’Inverno) il luogo e l’epoca (la Russia durante la seconda guerra mondiale) sono raccontati in modo molto vivido. Le piccole cose come il tragitto del tram e la posizione dei negozi sono autentici?
Ha sentito il bisogno di fornire dei dettagli esatti in memoria e per rispetto della sua famiglia?
Paullina: Questo libro è stato molto più difficile da scrivere perché le difficoltà dei russi in generale, e quelle di Tatiana e Alexander in particolare, mi toccano molto da vicino. Credo che più i fatti sono vicini allo scrittore più il suo compito è arduo. Sebbene la storia sia inventata, ho tentato di dare degli elementi di contorno veri ed esatti. Perciò il contesto, la guerra, l’assedio, la fame, la Storia, tutto è stato il più preciso possibile. La vita in Unione Sovietica in quell’epoca era talmente tragica, così al di la di quello che si potrebbe immaginare, che non ho avuto bisogno di inventare niente. La realtà stessa sembrava piuttosto una finzione. Molte persone mi dicono “Non è possibile!” a proposito di quel che racconto della vita in Unione Sovietica.
Gli avvenimenti de “Il Cavaliere d’Inverno” le sono stati ispirati dall’esperienza vissuta dai membri della sua famiglia o da quelli di suoi amici?
Paullina: Tutto ciò che gira attorno alla storia principale mi è stato ispirato dalla vita a Leningrado così come l’ho conosciuta, così come i miei nonni l’hanno conosciuta e come loro i nostri amici. Gli elementi descrittivi dell’appartamento, del cibo, i dettagli storici, gli appartamenti comuni, la vita nel quartiere, l’evacuazione, tutto questo è vero, è tutto vissuto. E il desiderio di conoscere l’amore, l’estasi del primo amore, la disperazione, l’intensità, la difficoltà di agire secondo coscienza, sono tutte emozioni vissute.
Può dirci qualcosa di più su i primi episodi, quello che è accaduto prima del romanzo e del suo seguito? Molti dei nostro lettori sono molto preoccupati per Tatiana e Alexander. Può rassicurarci sul loro conto?
Paullina: Vedo effettivamente moltissima gente su diversi siti che si preoccupa di quel che succederà a Tatiana e Alexander ma posso dirti che sono io la prima a preoccuparmene. Nel mio prossimo romanzo, “Tatiana&Alexander” avrete tutte le risposte che aspettate.
Quanto all’inizio, il racconto degli avvenimenti precendeti al romanzo, “The queen of lake Ilmen”,è un romanzo corto di 250 pagine che tratta un momento chiave dell’adolescenza di Tatiana, il momento in cui scopre il dolore per la prima volta nella sua vita. Ho scritto anche un racconto breve autobiografico intitolato “Six days in Leningrad”. Ma al momento non è in previsione la pubblicazione né dell’uno né dell’altro. Spero che il successo de “Il Cavaliere d’Inverno”, così come quello del seguito, spingerà i miei editori a pubblicarli.
Pensa che il libro sarà ben accolto in Russia? E’ prevista la traduzione e la pubblicazione anche lì? E’ interessante constatare che ha scelto come eroe maschile Alexander, un americano. Lui appare migliore, molto più forte, più intelligente, più accorto, più coraggioso di tutti gli uomini russi del libro. L’ha fatto apposta? C’era bisogno che fosse americano?
Paullina: Penso che il libro riceverà un’ottima accoglienza in Russia e si, abbiamo effettivamente venduto i diritti di pubblicazione anche lì.
Certo, ho deliberatamente scelto che Alexander fosse americano. Senza la volontà di Alexander avremmo intravisto Lazarevo in un lampo e poi i due eroi sarebbero morti. Senza Alexander e l’America che lui rappresenta, non ci sarebbe stata alcuna speranza. I libri che mettono in scena due protagonisti russi, anche quando sono uniti da un amore molto profondo, sono spesso cupi e lugubri. Prendete “Il dottor Zivago” per esempio…
Esiste una sensualità abbastanza forte fra Tatiana e Alexander. Perché ha sentito il bisogno di scrivere queste scene in modo così completo e dettagliato?
Paullina: In merito alla sensualità, ho voluto che fosse mostrata nello stesso modo di tutti gli altri aspetti del libro. Vediamo Alexander e Tatiana innamorarsi, siamo testimoni dell’imbarazzo che prova Tatiana riguardo a Dasha, assistiamo a tutti i piccoli momenti di intimità che Alexander e Tatiana riescono a rubare nella prima parte del libro, e assistiamo allo allo spettacolo della morte su grande scala, così come sul piano individuale. Come avremmo potuto essere i testimoni di uno spettacolo così macabro e passare senza transizione alla vita, alla gioia e alla felicità?
In realtà, Lazarevo è al centro del libro: volevo mostrare quanto l’amore di Tatiana e Alexander sia semplice, universale, passionale e come il suo sbocciare sia difficile in un luogo dove l’ideologia ha la meglio sull’umanità.
Poter assistere a ciascun istante della vita dei protagonisti, rende la quarta parte e l’epilogo molto più laceranti, semplicemente perché ci siamo enormemente immersi nella loro storia. Li abbiamo osservati così da vicino, abbiamo condiviso la loro intimità in modo così totale che il loro dolore diventa anche il nostro.
“Il cavaliere d’Inverno” comprende un buon numero di riferimenti alla Bibbia e all’immaginario religioso. Sono stata particolarmente colpita dagli ultimi paragrafi che sembrano evocare il salmo 23. Alexander e soprattutto Tatiana hanno delle caratteristiche cristiane. E’ stato semplicemente per un interesse letterario, o ha voluto in questo modo parlare dell’importanza della fede e della credenza religiosa?
Paullina: Un libro evolve molto, prima di diventare quello che è quando lo si legge. L’immaginario religioso è apparso a in piccole quantità nelle prime bozze e ha preso a poco a poco un’ importanza maggiore. Certamente alla fine è diventato uno dei temi maggiori del libro. L’ho fatto per diverse ragioni. Già dall’inizio, Tatiana mostrava numerose qualità che richiamavano quelle del Cristo. Questo non è stato intenzionale da parte mia.
Per poter essere la persona che è, e perché Alexander possa amarla in questo modo, bisognava che possedesse dei tratti del carattere che lui non aveva potuto trovare nelle altre donne e nel corso del resto della sua vita in Unione Sovietica, come per esempio l’assenza di vanità, l’altruismo, l’onestà, una grande forza contro le avversità.
In quell’epoca, la società sovietica era segnata dall’ateismo e dall’empietà: non si poteva essere contemporaneamente intellettuali e credere in Dio, non si poteva essere comunisti e credere in Dio, erano queste le opinioni che circolavano. Bisognava dunque che Tatiana fosse differente dalle altre donne perché Alexander provasse una tale attrazione verso di lei, e sebbene Tania forse non sia perfetta agli occhi di alcuni dei miei lettori, Alexander è convinto che lo sia in un modo divino. A più riprese, quando la descrive o pensa a lei, lo fa in termini molto esaltati e ha difficoltà a credere che una persona così profondamente buona abbia non soltanto incrociato il suo cammino ma che riesca anche ad amarlo con tutto il cuore.
“L’amore è quando lui ha fame e tu lo nutri” gli dice lei, e lui risponde: “Avevo fame e tu mi hai dato da mangiare”. L’ultima frase è presa direttamente dal vangelo secondo Marco. Parla di ciò che, secondo Marco, il Cristo ha donato al mondo. “Sei il mio miracolo” dice Alexander a Tania. “Dio ti ha inviata a me per darmi la fede”.
Come dice George Bernard Shaw, Dio compie dei miracoli per rinforzare la nostra fede, e da parte mia credo che sia proprio così.
“Tatiana incarnava l’ordine. Lei era la fine nell’infinito. Portava lo stendardo della grazia e dell’onore che brandiva con bontà e perfezione”. E’ in questi termini che Alexander pensa a Tatiana.
A Lazarevo, quando lui si arrabbia perché lei aiuta senza sosta quelle vecchie signore, lui dice: “Certo che le fa piacere. E fra poco si inginocchierà e vi laverà i piedi. Non pensate che persino i discepoli di Cristo debbano versargli da bere almeno ogni tanto?”. Questo è un richiamo diretto all’Ultima Cena.
“Alexander andò a Lazarevo spinto dalla fede”.
Quando Tania si fa il segno della croce durante il coprifuoco, questo è un gesto le procura un certo conforto: “E’ come se non fossimo soli”, pensa al termine di un lungo momento passato a pensare a Dio e al comunismo.
Quando Marina, sul suo letto di morte, chiede a Tania “com’è” essere amati da qualcuno, lei risponde: “E’ come se non fossi più sola”.
E ci sono molti altri richiami che, messi uno di fianco all’altro, rinforzano l’idea che Dio e la fede avevano un’importanza reale per coloro che si amavano veramente. E allo stesso modo il fatto che anche in una società atea come l’Unione Sovietica, le persone profondamente buone come Tatiana, possano mostrare con naturalezza dei tratti divini, senza aver bisogno di pratiche o istruzioni religiose.
Per quel che riguarda le ultime parti del libro, sono d’accordo con lei, comprende un po’ dell’immaginario e della sintassi del famoso Salmo 23, così confortante e lacerante, ma in modo subliminale.
Ho scritto prima quel brano e poi mi sono resa conto che richiamava qualcosa che mi era molto familiare.
Tutto quello che ha appena detto riguarda Tania. Cosa ne è dell’immagine cristiana di Alexander?
Paullina: Tanto per cominciare, per farmi piacere, ho pensato alla canzone di Joan Osborne “What if God was one of us? Just a slob like one of us. Just a stranger on the bus...(e se Dio si trovasse tra noi? Se non fosse nient’altro che uno come noi? Uno sconosciuto sull’autobus...)”.
Mi è piaciuta molto l’idea di uno sconosciuto sull’autobus perché il primo incontro fra Tatiana e Alexander ha luogo su un autobus. Ma più seriamente, è impossibile dimenticare che è lui e non Tatiana, quello che sacrifica la sua vita per salvare lei. Difficilmente ci si può mostrare più cristiani di così.
Eppure, la personalità di Alexander non ha niente di quella di Cristo. Alexander è un peccatore credente. Tatiana invece è chiaramente una non credente che però non commette peccati. E malgrado tutto, loro due hanno un certo numero di cose in comune: entrambi possiedono una volontà di ferro e agiscono in modo giusto anche quando è difficile. La loro morale non è fatta di mezze tinte.
Può raccontare ai nostri lettori in che modo è arrivata alla scrittura?
Paullina: Ho sempre saputo di voler scrivere, sin da quando ero piccola, all’epoca in cui vivevo in Russia, perché i libri mi procuravano le emozioni più intense.
Ho sempre sognato di scrivere un libro che toccasse le altre persone, tanto quanto i miei romanzi preferiti avevano fatto con me. Appena sono arrivata in America, a dieci anni, anche se dovevo superare la barriera di una nuova lingua il mio sogno è rimasto quello di diventare un giorno una scrittrice, anche se magari con un pessimo inglese.
Ho scritto il mio primo “romanzo” a dodici anni, settantotto pagine che s’intitolavano “The legend of Amiromani”. Era ispirato al contempo ad un episodio di Star Trek, a Rosemary’s baby e al Grande Gatsby.
Mia madre l’ha buttato nella spazzatura molti anni più tardi mettendo a posto la soffitta.
La maggior parte degli autori sono spesso stati dei grandi lettori. E’ stato anche il suo caso? Cosa la attira prima di tutto: le parole o il fatto di raccontare una storia, o entrambi?
Paullina: Non penso si possa essere un buon scrittore senza essere stato in un momento della propria vita un avido lettore. Le parole formano il linguaggio e il linguaggio forgia l’immaginario e i sentimenti. Senza questi due elementi, com’è possibile scrivere un libro degno di questo nome?
Per me è stato senza dubbio così. Ho sempre letto. Vivo con e per la scrittura. E’ l’originalità della costruzione e l’utilizzo che si fa della lingua che fanno si che ci si ricordi o meno di un romanzo.
Ciò nonostante, le parole da sole non fanno un buon libro. Serve una storia con un inizio, un centro, una fine, uno sviluppo, un conflitto, un senso e dei sentimenti.
Ci si può trovare per le mani una buona storia senza una scrittura particolarmente interessante, o al contrario essere in presenza di parola magnifiche e di una storia senza interesse. In entrambi i casi, può funzionare solo fino a un certo punto con il pubblico, ma un libro in cui la sostanza e la forma siano interessanti lascerà per forza di cose un ricordo più duraturo.
L’inglese non è la sua lingua madre, quali ripercussioni ha avuto questo a suo avviso sulla sua scrittura? E’ risultato importante nella scelta delle parole?
Paullina: Il fatto che l’inglese non sia la mia lingua madre costituisce al contempo la mia forza e la mia debolezza. Ho talvolta dei problemi con le espressioni idiomatiche inglesi (ovvero a volte le interpreto male). Il russo mi aiuta a visualizzare le passioni, i sentimenti, le sofferenze che l’inglese da solo non mi permette di raggiungere. Provo in russo e penso in inglese, per così dire. Il russo raggiunge delle aree del mio cervello che l’inglese non sfiora neppure.
Lei è cresciuta in Russia, poi è vissuta nel Regno Unito e quindi negli Stati Uniti. Dove si sente più a casa?
Paullina: Per aver vissuto in numerosi luoghi diversi, ho una grande facilità ad attaccarmi ai posti, così come a distaccarmene. E’ la mia fortuna e la mia sfortuna.
Sono russa, sono diventata americana e sono stata inglese, un periodo felice che ricordo sempre con piacere.
Ma da quando avevo dieci anni, non ho mai vissuto più di due anni di seguito nello stesso posto. Il luogo dove ho vissuto più a lungo è l’appartamento del Quinto Soviet che è descritto ne “Il Cavaliere d’Inverno”.
Oggi, non mi sento più russa che texana o abitante di long island, del kansas o di brooklyn, ma quando penso alle cose che mi toccano - le canzoni e i libri che amo, i piatti che mi piacciono, la lingua che mi consola - tutte queste cose sono invariabilmente russe. Un cuore russo batte dentro di me, è evidente, e non smetterà mai di battere; è nato con me, è vissuto con me e sarà con me fino alla mia morte. Sono anche molto americana, i miei libri sono intrisi di un’atmosfera americana, ma sotto questa mia aria felice, la mia anima russa fatta di tormenti, di sofferenza, di dolore e di costante analisi, resta molto viva. Nei miei libri si può notare la stessa cosa. I fatti da soli non mi bastano, devo aggiungere sempre un tocco di questa spiritualità.
Detto questo, non penso affatto che l’America non abbia un’anima. Gli americano sono più felici dei russi ma questo non vuol dire che non abbiano un’anima. Semplicemente conducono una vita più dolce. I russi hanno l’abitudine a soffrire per qualunque cosa. Come gli Irlandesi adorano la poesia, adorano bere e piangere sui bei poemi. Gli americani si accontentano di bere!
USA ha descritto “Tully” come “una protagonista così assolutamente americana e contemporanea come lo è una crisi d’indentità”. Pensa che la sua anima russa le permetta di considerare la cultura americana da un punto di vista più distaccato e quindi più acuto?
Paullina: Secondo me la mia anima russa mi permette di considerare la cultura americana da una prospettiva più obiettiva e soggettiva al tempo stesso. In altre parole, dato che non sono cresciuta in mezzo a tutte le cose che gli americani danno per scontate, ho la capacità di guardarle e di dire: “Che fortuna, abbiamo tutte queste cose, abbiamo tante opportunità...”.
Ho la tendenza a mostrare un ottimismo senza limiti quando si tratta degli Stati Uniti e del modo di vivere americano, proprio perché non sono nata in mezzo a tutto questo. E’ molto più facile per le persone nate all’interno di quell’ambiente dire: “Si, ma guarda questo non va, quello non va ...” e per me di dire: “Si hai ragione ma c’è anche questo...”. Ecco ciò che mi permette la mia anima russa.
tradotta da qui
Gli avvenimenti de “Il Cavaliere d’Inverno” le sono stati ispirati dall’esperienza vissuta dai membri della sua famiglia o da quelli di suoi amici?
Paullina: Tutto ciò che gira attorno alla storia principale mi è stato ispirato dalla vita a Leningrado così come l’ho conosciuta, così come i miei nonni l’hanno conosciuta e come loro i nostri amici. Gli elementi descrittivi dell’appartamento, del cibo, i dettagli storici, gli appartamenti comuni, la vita nel quartiere, l’evacuazione, tutto questo è vero, è tutto vissuto. E il desiderio di conoscere l’amore, l’estasi del primo amore, la disperazione, l’intensità, la difficoltà di agire secondo coscienza, sono tutte emozioni vissute.
Può dirci qualcosa di più su i primi episodi, quello che è accaduto prima del romanzo e del suo seguito? Molti dei nostro lettori sono molto preoccupati per Tatiana e Alexander. Può rassicurarci sul loro conto?
Paullina: Vedo effettivamente moltissima gente su diversi siti che si preoccupa di quel che succederà a Tatiana e Alexander ma posso dirti che sono io la prima a preoccuparmene. Nel mio prossimo romanzo, “Tatiana&Alexander” avrete tutte le risposte che aspettate.
Quanto all’inizio, il racconto degli avvenimenti precendeti al romanzo, “The queen of lake Ilmen”,è un romanzo corto di 250 pagine che tratta un momento chiave dell’adolescenza di Tatiana, il momento in cui scopre il dolore per la prima volta nella sua vita. Ho scritto anche un racconto breve autobiografico intitolato “Six days in Leningrad”. Ma al momento non è in previsione la pubblicazione né dell’uno né dell’altro. Spero che il successo de “Il Cavaliere d’Inverno”, così come quello del seguito, spingerà i miei editori a pubblicarli.
Pensa che il libro sarà ben accolto in Russia? E’ prevista la traduzione e la pubblicazione anche lì? E’ interessante constatare che ha scelto come eroe maschile Alexander, un americano. Lui appare migliore, molto più forte, più intelligente, più accorto, più coraggioso di tutti gli uomini russi del libro. L’ha fatto apposta? C’era bisogno che fosse americano?
Paullina: Penso che il libro riceverà un’ottima accoglienza in Russia e si, abbiamo effettivamente venduto i diritti di pubblicazione anche lì.
Certo, ho deliberatamente scelto che Alexander fosse americano. Senza la volontà di Alexander avremmo intravisto Lazarevo in un lampo e poi i due eroi sarebbero morti. Senza Alexander e l’America che lui rappresenta, non ci sarebbe stata alcuna speranza. I libri che mettono in scena due protagonisti russi, anche quando sono uniti da un amore molto profondo, sono spesso cupi e lugubri. Prendete “Il dottor Zivago” per esempio…
Esiste una sensualità abbastanza forte fra Tatiana e Alexander. Perché ha sentito il bisogno di scrivere queste scene in modo così completo e dettagliato?
Paullina: In merito alla sensualità, ho voluto che fosse mostrata nello stesso modo di tutti gli altri aspetti del libro. Vediamo Alexander e Tatiana innamorarsi, siamo testimoni dell’imbarazzo che prova Tatiana riguardo a Dasha, assistiamo a tutti i piccoli momenti di intimità che Alexander e Tatiana riescono a rubare nella prima parte del libro, e assistiamo allo allo spettacolo della morte su grande scala, così come sul piano individuale. Come avremmo potuto essere i testimoni di uno spettacolo così macabro e passare senza transizione alla vita, alla gioia e alla felicità?
In realtà, Lazarevo è al centro del libro: volevo mostrare quanto l’amore di Tatiana e Alexander sia semplice, universale, passionale e come il suo sbocciare sia difficile in un luogo dove l’ideologia ha la meglio sull’umanità.
Poter assistere a ciascun istante della vita dei protagonisti, rende la quarta parte e l’epilogo molto più laceranti, semplicemente perché ci siamo enormemente immersi nella loro storia. Li abbiamo osservati così da vicino, abbiamo condiviso la loro intimità in modo così totale che il loro dolore diventa anche il nostro.
“Il cavaliere d’Inverno” comprende un buon numero di riferimenti alla Bibbia e all’immaginario religioso. Sono stata particolarmente colpita dagli ultimi paragrafi che sembrano evocare il salmo 23. Alexander e soprattutto Tatiana hanno delle caratteristiche cristiane. E’ stato semplicemente per un interesse letterario, o ha voluto in questo modo parlare dell’importanza della fede e della credenza religiosa?
Paullina: Un libro evolve molto, prima di diventare quello che è quando lo si legge. L’immaginario religioso è apparso a in piccole quantità nelle prime bozze e ha preso a poco a poco un’ importanza maggiore. Certamente alla fine è diventato uno dei temi maggiori del libro. L’ho fatto per diverse ragioni. Già dall’inizio, Tatiana mostrava numerose qualità che richiamavano quelle del Cristo. Questo non è stato intenzionale da parte mia.
Per poter essere la persona che è, e perché Alexander possa amarla in questo modo, bisognava che possedesse dei tratti del carattere che lui non aveva potuto trovare nelle altre donne e nel corso del resto della sua vita in Unione Sovietica, come per esempio l’assenza di vanità, l’altruismo, l’onestà, una grande forza contro le avversità.
In quell’epoca, la società sovietica era segnata dall’ateismo e dall’empietà: non si poteva essere contemporaneamente intellettuali e credere in Dio, non si poteva essere comunisti e credere in Dio, erano queste le opinioni che circolavano. Bisognava dunque che Tatiana fosse differente dalle altre donne perché Alexander provasse una tale attrazione verso di lei, e sebbene Tania forse non sia perfetta agli occhi di alcuni dei miei lettori, Alexander è convinto che lo sia in un modo divino. A più riprese, quando la descrive o pensa a lei, lo fa in termini molto esaltati e ha difficoltà a credere che una persona così profondamente buona abbia non soltanto incrociato il suo cammino ma che riesca anche ad amarlo con tutto il cuore.
“L’amore è quando lui ha fame e tu lo nutri” gli dice lei, e lui risponde: “Avevo fame e tu mi hai dato da mangiare”. L’ultima frase è presa direttamente dal vangelo secondo Marco. Parla di ciò che, secondo Marco, il Cristo ha donato al mondo. “Sei il mio miracolo” dice Alexander a Tania. “Dio ti ha inviata a me per darmi la fede”.
Come dice George Bernard Shaw, Dio compie dei miracoli per rinforzare la nostra fede, e da parte mia credo che sia proprio così.
“Tatiana incarnava l’ordine. Lei era la fine nell’infinito. Portava lo stendardo della grazia e dell’onore che brandiva con bontà e perfezione”. E’ in questi termini che Alexander pensa a Tatiana.
A Lazarevo, quando lui si arrabbia perché lei aiuta senza sosta quelle vecchie signore, lui dice: “Certo che le fa piacere. E fra poco si inginocchierà e vi laverà i piedi. Non pensate che persino i discepoli di Cristo debbano versargli da bere almeno ogni tanto?”. Questo è un richiamo diretto all’Ultima Cena.
“Alexander andò a Lazarevo spinto dalla fede”.
Quando Tania si fa il segno della croce durante il coprifuoco, questo è un gesto le procura un certo conforto: “E’ come se non fossimo soli”, pensa al termine di un lungo momento passato a pensare a Dio e al comunismo.
Quando Marina, sul suo letto di morte, chiede a Tania “com’è” essere amati da qualcuno, lei risponde: “E’ come se non fossi più sola”.
E ci sono molti altri richiami che, messi uno di fianco all’altro, rinforzano l’idea che Dio e la fede avevano un’importanza reale per coloro che si amavano veramente. E allo stesso modo il fatto che anche in una società atea come l’Unione Sovietica, le persone profondamente buone come Tatiana, possano mostrare con naturalezza dei tratti divini, senza aver bisogno di pratiche o istruzioni religiose.
Per quel che riguarda le ultime parti del libro, sono d’accordo con lei, comprende un po’ dell’immaginario e della sintassi del famoso Salmo 23, così confortante e lacerante, ma in modo subliminale.
Ho scritto prima quel brano e poi mi sono resa conto che richiamava qualcosa che mi era molto familiare.
Tutto quello che ha appena detto riguarda Tania. Cosa ne è dell’immagine cristiana di Alexander?
Paullina: Tanto per cominciare, per farmi piacere, ho pensato alla canzone di Joan Osborne “What if God was one of us? Just a slob like one of us. Just a stranger on the bus...(e se Dio si trovasse tra noi? Se non fosse nient’altro che uno come noi? Uno sconosciuto sull’autobus...)”.
Mi è piaciuta molto l’idea di uno sconosciuto sull’autobus perché il primo incontro fra Tatiana e Alexander ha luogo su un autobus. Ma più seriamente, è impossibile dimenticare che è lui e non Tatiana, quello che sacrifica la sua vita per salvare lei. Difficilmente ci si può mostrare più cristiani di così.
Eppure, la personalità di Alexander non ha niente di quella di Cristo. Alexander è un peccatore credente. Tatiana invece è chiaramente una non credente che però non commette peccati. E malgrado tutto, loro due hanno un certo numero di cose in comune: entrambi possiedono una volontà di ferro e agiscono in modo giusto anche quando è difficile. La loro morale non è fatta di mezze tinte.
Può raccontare ai nostri lettori in che modo è arrivata alla scrittura?
Paullina: Ho sempre saputo di voler scrivere, sin da quando ero piccola, all’epoca in cui vivevo in Russia, perché i libri mi procuravano le emozioni più intense.
Ho sempre sognato di scrivere un libro che toccasse le altre persone, tanto quanto i miei romanzi preferiti avevano fatto con me. Appena sono arrivata in America, a dieci anni, anche se dovevo superare la barriera di una nuova lingua il mio sogno è rimasto quello di diventare un giorno una scrittrice, anche se magari con un pessimo inglese.
Ho scritto il mio primo “romanzo” a dodici anni, settantotto pagine che s’intitolavano “The legend of Amiromani”. Era ispirato al contempo ad un episodio di Star Trek, a Rosemary’s baby e al Grande Gatsby.
Mia madre l’ha buttato nella spazzatura molti anni più tardi mettendo a posto la soffitta.
La maggior parte degli autori sono spesso stati dei grandi lettori. E’ stato anche il suo caso? Cosa la attira prima di tutto: le parole o il fatto di raccontare una storia, o entrambi?
Paullina: Non penso si possa essere un buon scrittore senza essere stato in un momento della propria vita un avido lettore. Le parole formano il linguaggio e il linguaggio forgia l’immaginario e i sentimenti. Senza questi due elementi, com’è possibile scrivere un libro degno di questo nome?
Per me è stato senza dubbio così. Ho sempre letto. Vivo con e per la scrittura. E’ l’originalità della costruzione e l’utilizzo che si fa della lingua che fanno si che ci si ricordi o meno di un romanzo.
Ciò nonostante, le parole da sole non fanno un buon libro. Serve una storia con un inizio, un centro, una fine, uno sviluppo, un conflitto, un senso e dei sentimenti.
Ci si può trovare per le mani una buona storia senza una scrittura particolarmente interessante, o al contrario essere in presenza di parola magnifiche e di una storia senza interesse. In entrambi i casi, può funzionare solo fino a un certo punto con il pubblico, ma un libro in cui la sostanza e la forma siano interessanti lascerà per forza di cose un ricordo più duraturo.
L’inglese non è la sua lingua madre, quali ripercussioni ha avuto questo a suo avviso sulla sua scrittura? E’ risultato importante nella scelta delle parole?
Paullina: Il fatto che l’inglese non sia la mia lingua madre costituisce al contempo la mia forza e la mia debolezza. Ho talvolta dei problemi con le espressioni idiomatiche inglesi (ovvero a volte le interpreto male). Il russo mi aiuta a visualizzare le passioni, i sentimenti, le sofferenze che l’inglese da solo non mi permette di raggiungere. Provo in russo e penso in inglese, per così dire. Il russo raggiunge delle aree del mio cervello che l’inglese non sfiora neppure.
Lei è cresciuta in Russia, poi è vissuta nel Regno Unito e quindi negli Stati Uniti. Dove si sente più a casa?
Paullina: Per aver vissuto in numerosi luoghi diversi, ho una grande facilità ad attaccarmi ai posti, così come a distaccarmene. E’ la mia fortuna e la mia sfortuna.
Sono russa, sono diventata americana e sono stata inglese, un periodo felice che ricordo sempre con piacere.
Ma da quando avevo dieci anni, non ho mai vissuto più di due anni di seguito nello stesso posto. Il luogo dove ho vissuto più a lungo è l’appartamento del Quinto Soviet che è descritto ne “Il Cavaliere d’Inverno”.
Oggi, non mi sento più russa che texana o abitante di long island, del kansas o di brooklyn, ma quando penso alle cose che mi toccano - le canzoni e i libri che amo, i piatti che mi piacciono, la lingua che mi consola - tutte queste cose sono invariabilmente russe. Un cuore russo batte dentro di me, è evidente, e non smetterà mai di battere; è nato con me, è vissuto con me e sarà con me fino alla mia morte. Sono anche molto americana, i miei libri sono intrisi di un’atmosfera americana, ma sotto questa mia aria felice, la mia anima russa fatta di tormenti, di sofferenza, di dolore e di costante analisi, resta molto viva. Nei miei libri si può notare la stessa cosa. I fatti da soli non mi bastano, devo aggiungere sempre un tocco di questa spiritualità.
Detto questo, non penso affatto che l’America non abbia un’anima. Gli americano sono più felici dei russi ma questo non vuol dire che non abbiano un’anima. Semplicemente conducono una vita più dolce. I russi hanno l’abitudine a soffrire per qualunque cosa. Come gli Irlandesi adorano la poesia, adorano bere e piangere sui bei poemi. Gli americani si accontentano di bere!
USA ha descritto “Tully” come “una protagonista così assolutamente americana e contemporanea come lo è una crisi d’indentità”. Pensa che la sua anima russa le permetta di considerare la cultura americana da un punto di vista più distaccato e quindi più acuto?
Paullina: Secondo me la mia anima russa mi permette di considerare la cultura americana da una prospettiva più obiettiva e soggettiva al tempo stesso. In altre parole, dato che non sono cresciuta in mezzo a tutte le cose che gli americani danno per scontate, ho la capacità di guardarle e di dire: “Che fortuna, abbiamo tutte queste cose, abbiamo tante opportunità...”.
Ho la tendenza a mostrare un ottimismo senza limiti quando si tratta degli Stati Uniti e del modo di vivere americano, proprio perché non sono nata in mezzo a tutto questo. E’ molto più facile per le persone nate all’interno di quell’ambiente dire: “Si, ma guarda questo non va, quello non va ...” e per me di dire: “Si hai ragione ma c’è anche questo...”. Ecco ciò che mi permette la mia anima russa.
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